La mia rocambolesca fuga dal Wood fino al Bigfoot Stage stasera nasconde più dell’ormai consueta ansia che mi assale verso le 20 per il timore di non riuscire a comporre un testo sensato entro un orario decente. Stasera c’è un elemento in più: non solo devo farlo, ma devo farlo entro le 21. Perché io oggi almeno per un’ora non lavoro a Woodoo Fest. No. Bando ai pass, I bracciali e ai free drink. Stasera sono un dannato fan. Un dannato fan di Tutti Fenomeni. Mi dispiace Woodoo, c’è un momento in cui un uomo deve scegliere se rispondere al sé stesso adulto che si assume delle responsabilità professionali o all’adolescente che è in lui in cerca di ispirazioni e sogni a venire. Certo, se avessi 17 anni Tutti Fenomeni sarebbe il mio spirito guida. Ne ho 32, Tutti Fenomeni ha qualcosa tipo 6 anni in meno di me e forse non è proprio paragonabile a quel tipo di fanatismo. Eppure mi accorgo che l’attesa per il suo concerto mi riporta ai quei momenti di aspettative che precedevano i concerti degli Editors o del Teatro degli Orrori. Capisco ancora meglio a cosa sto prendendo parte, ed è qualcosa che in questi giorni avevo tralasciato: sto prendendo parte ad una tradizione.
Seguo il concerto di Naska e Panetti di fianco al palco, mangiando qualcosa al volo. Non mi pare di aver sentito un singalong così selvaggio con nessuno degli artisti di Woodoo fino ad ora. Mi domando se abbiamo letto l’articolo che ho appena finito di scrivere, perché in quanto a salti mortali i nostri non si risparmiano per nulla. Finito il loro live raggiungo Tino nel parterre, di fronte al palco.
Tutti Fenomeni sale sul palco e mi sembra di sentirmi trasportare fuori da Woodoo. È la prima volta in tutto il festival che vedo un concerto interamente di fronte al palco, dall’inizio alla fine. Il momento che ci offre mi viene sparato addosso come se tutto fosse incastonato in una sezione fuori dal tempo contenuta dentro il festival, come se tutto il resto, durante la sua durata, non esistesse. In quel momento non solo non c’è più il resto, ma percepisco che ci sono solamente io. È una solitudine condivisa, rassicurante, accecante come una supernova. Migliaia di persone sono connesse insieme perché ciascuno è connesso prima di tutto a sé stesso. Se mi dicessero che questo si avvicina al senso empirico della vita, mi fiderei.
In quel momento ho un’illuminazione su tutti questi giorni. Forse costruire una comunità con tanti individui che si mescolano per creare un nuovo grande tutt’uno indentitario, serve solo per permettere a ciascuno di riprendersi sé stesso e ritrovarlo cambiato. Anzi, ritrovarlo rinato. Una tribù serve a rinascere ogni volta.
Dopo il concerto di Tutti Fenomeni incontro Elton Novara, che più tardi suonerà con Ariele Frizzante. Andiamo a fare un giro e incontriamo Chiara, che si scusa di non poterci abbracciare in quanto si è versata per sbaglio una birra addosso. «Non c’è problema, bacio sempre le ragazze così» risponde Elton.
Con lui torno verso l’opera di Andre Crespi. Elton si infila il visore per la realtà virtuale, arriva una ragazza di nome Giada che si esalta perché lo scambia per Ziliani. Elton le risponde che si sbaglia, in realtà lui è Calcutta.
Dietro a un separè c’è un gruppetto di individui in cerchio che sembra stia facendo una specie di seduta spiritica. Non mi intrometto.
Mi allontano un attimo, torno e Elton si sta facendo fare una striscia di glitter attorno agli occhi per la quale Bowie stesso, negli anni sessanta, gli avrebbe chiesto di andarci piano.
Dopo giorni cedo e mi faccio dipingere la faccia anche io.
Mentre guardo da lontano il concerto degli Zen mi accorgo che non sento più il bisogno di dire niente. Di raccontare, di analizzare, di scrutare o di scoprire. Questi giorni parleranno da sé, per tutti coloro che li hanno vissuti.
Di nuovo provo un déjà-vu devastante. Un déjà-woodoo. L’ultimo anno che feci questo festival sul palco era proprio come stasera, con gli Zen Circus a chiudere la giornata. Ancora una volta, non riesco a concepire il tempo che è passato. Se è passato, dove è andato?
Ripenso a tutte le volte in cui ho visto gli Zen Circus negli anni. Mi viene in mente chi era con me allora e chi non c’è più. Mi vengono in mente tutti i Woodoo che ho visto. E mi domando quanto è strano che un semplice momento di canzoni possa far fare dei bilanci.
Penso che in questi giorni ho conosciuto un sacco di persone meravigliose, alcune delle quali avevo solo sfiorato negli anni. E ho visto e rivisto tutte insieme molti amici che negli anni sono diventati una mia famiglia. Una famiglia mica la devi vedere tutto il tempo. Capitano i periodi in cui non ci si sente, non ci si vede, magari non ci si pensa neppure. Magari si litiga, magari si cambia città e paese. Ma non ci si dimentica.
Sì, è un cliché. Però ci sarà un motivo se i cliché diventano tali no?
Torno verso il palco, appena in tempo per arrampicarmi in piedi sulla pedana rialzata a ridosso del palco e vedere gli Zen cantare Viva insieme a tutto il pubblico. Dalla mia visuale mi sembra quasi di essere sul palco. Mi immagino il canto salire verso l’alto, superare il tendone e allontanarsi nel cielo.
Qualche ora dopo, attorno alle 5, mi trovo nel campeggio. Ho fatto in tempo a mangiare l’ultimo hotdog in assoluto fatto al festival. Mi sono fatto un cocktail terribile e continuo ad aggiungerci ghiaccio per renderlo più bevibile. Siamo seduti in gruppetti in cerchio, sulle amache o sui tavoli. Alcuni sono spariti, altri si sono addormentati chissà dove, altri ancora si sono appartati nelle tende con persone appena conosciute.
Siamo tutti rallentati, come in un sogno al contrario.
Si vede la luce del sole spuntare nel cielo attraverso le fronde.
Altro che fine, questo è l’inizio.